Mi spiace, ma non riesco a chiudere!
Una tra le frasi ricorrenti, quando ci si trova incastrati all’interno di un rapporto disfunzionale, è l’incapacità di chiudere un rapporto. Sembra quasi impossibile: non puoi, o forse semplicemente non vuoi e resti fisiologicamente e inconsapevolmente in attesa di una sorta di miracolo. Il cosiddetto cambiamento. In fondo, siamo tutte cresciute con quell’idea dell’uomo che cambia per amore! E poi abbiamo tutta quella sfilza di esperienze datate che per la stragrande maggioranza arriva dalle nostre care amate nonne, secondo cui per amore si può cambiare la propria indole! Per amore chi ama fa l’impossibile, per amore si dimostra l’impossibile, per amore ti completo.
Ma quanto sono vere queste supposizioni, così intensamente interiorizzate dentro la maggior parte di noi, popolo innamorato dell’amore?
Sarò chiara: coloro che, in genere, restano impigliati all’interno di storie sterili e prive di ogni consistenza emotiva sono proprio tutte quelle persone educate al compiacimento, all’empatia, vittime di violenza assistita o vittime in generale, con una bassa autostima. Quelle persone, per essere spiccioli, che pensano di non valere niente e che considerano le attenzioni dell’altro (o presunte tali) come una gentile concessione della vita, donata proprio a loro “nati per non meritare amore”.
Quante persone ognuno di noi conosce che pensa di non essere degno di amore, di quell’amore sano, capace di restare, di mantenerti costante, di rasserenarti, di donarti quella stabilità che estende la tua personalità e che ti fa diventare più forte, sempre?!
Tuttavia, l’attrazione per le variabili in continua variazione è più forte di ogni cosa, e si rischia di restare aggrovigliati in quella matassa, senza essere più in grado di uscirne. Ergo, si sceglie di restare tra i rovi, magari feriti ma pur sempre lì! Perché, in fondo, quelle ferite, quelle cicatrici, quei tagli sono ormai i nostri, quelle ferite fanno ormai parte della nostra storia, della nostra vita. Le riconosciamo in quelle ferite infantili mai cicatrizzate, che nessuno ha saputo o forse voluto curare. L’automedicamento è l’unica cura che abbiamo conosciuto, l’unica possibile. Ma come fa a curarsi una persona alla quale non è stato mai insegnato che bisogna apprezzare la propria pelle e, dunque, che andare tra i rovi risulta sconveniente? Ecco che queste dinamiche sono intrise di carenza, di vuoto, di assenza. Come se quello che sussurriamo a noi stessi sia: la tua pelle non vale! Tagliata, sanguinate, che problema c’è? Non vale comunque a nulla, dunque perché prendersene cura?
Se questo è il pensiero animante di noi, alle quali come piante hanno insegnato che anche senz’acqua si può vivere, allora il nostro ruolo ce lo siamo già tatuato addosso, e un tatuaggio, si sa, per toglierlo si deve prima capire che non ci appartiene più.
Ma ora, per un attimo, fermatevi a pensare: qual è il tipo di vita che sognate? Guardatevi attorno. Ce l’avete? Potreste averla?
Combattete per ottenere quanto vi spetta. La vita è qualcosa di pieno, ma riempitelo di esperienze gratificanti, piacevoli, di ricordi che vale la pena ricordare. Abbandonate la solitudine, la sofferenza, i “torcicolli emotivi”. Guardate avanti. Testa alta e sorridete … col cuore!
Dr.ssa Deborah Giombarresi – Psicoterapeuta