Revenge porn: cos’è, come difendersi e perché è tanto pericoloso

L’avvocato Simona Cultrera ci spiega questo reato che colpisce in primis i minori e le giovani donne.

La locuzione, di origine anglosassone, “revenge porn” significa “vendetta porno”. Il revenge porn, come il nome stesso suggerisce, associa la pornografia alla vendetta, aprendo una serie di scenari drammatici che colpiscono inconsapevolmente le vittime. Si tratta di un reato recente che si concentra su un fenomeno gravissimo, che vìola la sfera intima e psicologica delle vittime.

Sono tante le storie di donne che sono state fotografate e filmate a loro insaputa, e che hanno visto poi diffondere le loro immagini. Alcune di queste, purtroppo, sono balzate alla cronaca per il tragico epilogo, il suicidio, ragion per cui non possiamo chiudere gli occhi davanti al reato di revenge porn.

Ma cos’e questo reato?

E’ anche detto stupro virtuale, ha contenuto erotico e un sottofondo violento, almeno psicologicamente, si aggira prevalentemente in rete ed è diventato reato dal momento dell’entrata in vigore della legge n. 69, altrimenti detta “Codice Rosso” che ha definito il revenge porn come “diffusione illecita di contenuti sessualmente espliciti”, punendolo con la pena della reclusione da uno a cinque anni.

Secondo analisi al momento non complete, di questo reato risultano spesso vittime (ed altrettanto spesso autori) i giovani dai 13 ai 19 anni di età. Pare che oltre il 65% dei ragazzi in età scolare ammetta di utilizzare il sexting (ossia l’invio e lo scambio di immagini sessualmente esplicite) e se per la maggior parte dei soggetti di sesso femminile ciò è ammesso per lo più all’interno di una “relazione”, per l’80% di quelli di sesso maschile prescinde dal rapporto affettivo.

Quando questo reato non esisteva, i processi venivano inquadrati e celebrati come atti persecutori e pornografia. Il nucleo del problema è il cosiddetto consenso, ossia non esiste reato se la vittima è d’accordo sul fatto che le sue immagini vengano divulgate. Bisogna distinguere, quindi, tra consenso a che una certa persona riceva quelle immagini intime (sul quale ovviamente c’è piena libertà in capo a chiunque) e consenso a che questa persona poi le giri, a sua volta, ad altri. Oggi il nuovo reato punisce solo chi divulghi senza il consenso della persona rappresentata, ossia di chi si vede nelle foto o nei video.

Cosa succede se qualcuno minaccia di diffondere immagini o video?

Bisogna immediatamente rivolgersi alla Polizia Postale o ad un centro antiviolenza. E bisogna, soprattutto, stare attente a non cadere nel ricatto, perché la contropartita offerta (altre immagini, il più delle volte, ma anche rapporti sessuali o denaro, nel caso delle cosiddette sextortions, le estorsioni sessuali) quasi mai viene davvero ottenuta e si innesca un meccanismo circolare in cui la minaccia continuerà.

Si deve segnalare il contenuto pubblicato perché venga rimosso?

Se la foto o il video sono già stati pubblicati, si può chiederne la rimozione dai social. Se questo iter non si attiva entro 48 ore, si può scaricare l ’apposito modulo e domandare che il Garante si attivi sulla piattaforma. Se passano altre 48 ore inutilmente, si può adire l’autorità giudiziaria. Per presentare querela ci sono sei mesi di tempo da quando scopriamo che i nostri contenuti intimi girano nel web.

La relazione amorosa è un’aggravante, dal momento che proprio il partner con maggiori probabilità dispone di quel genere di materiale, per averlo, appunto, girato o scattato, o per aver avuto accesso a dove custodito.

Come possiamo difenderci dal revenge porn?

“Su questo, però, bisogna intendersi bene: per molto tempo, quando l’articolo non esisteva ancora, l’autorità giudiziaria ha celebrato i processi per revenge porn sulla scorta di altri reati, come gli atti persecutori e la pedopornografia, e si è fatta molta confusione tra il consenso a che una certa persona riceva quelle immagini intime (sul quale ovviamente c’è piena libertà in capo a chiunque) e consenso a che questa persona poi le giri ad altri” ci spiega l’avvocato Sorgato. Esistono pronunce anche tristemente note, perché hanno portato le vittime al suicidio, in cui si è sostenuto che aver concesso di venir filmata durante atti sessuali e anche di consegnare a determinate persone il video comportasse, automaticamente, il permesso a pubblicarlo su canali comunicativi di massa come YouTube o Facebook. Ricordiamo i casi tristemente noti di Tiziana Cantone, Carolina Picchio, morte suicide proprio a causa del revenge porn.

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