Adulterio, concubinato, matrimonio riparatore e causa d’onore, icone della discriminazione giuridica delle donne
Solo nel 1981 in Italia il Parlamento ha abrogato la pratica del matrimonio riparatore e le assurde attenuanti del delitto d’onore. Paradossalmente la donna sin dal dicembre 1970 poteva divorziare, ma rischiava la vita se tradiva il marito
di Marcello Ribbera*
Negli anni ’60 del secolo scorso prese avvio un lento e inesorabile processo di cambiamento che, scardinando un certo tipo di cultura e di costume radicati prevalentemente in alcune aree geografiche del meridione d’Italia e non solo, avrebbe favorito l’abrogazione di alcune norme fortemente connotate da caratteristiche di discriminazione delle donne a vantaggio degli uomini
Si trattava di norme di legge ispirate dai criteri di diseguaglianza su cui era improntata la famiglia, riconducibili a rigidi schemi patriarcali basati su un rapporto di supremazia dell’uomo sulla donna, retaggio di modelli concettuali anacronistici e giuridicamente insostenibili, ma che, in fondo, riflettevano ampiamente le istanze normative sociali largamente diffuse e dominanti che erano la somma della cultura di un momento storico. Eravamo ancora in un’epoca in cui la concezione patriarcale della famiglia e la differenza di sesso si risolvevano nella soggezione, di fatto e di diritto, della donna al potere maschile e nella sua relegazione nel “naturale” ruolo domestico di moglie e di madre, perché l’impostazione patriarcale non tollerava l’autonomia della donna e del suo corpo.
Alcune di queste norme, previste dal codice Rocco del 1930, sono rimaste in vigore fino a qualche decennio fa e, limitando la questione su alcuni reati riconducibili all’ambito della famiglia e alla posizione dell’uomo in seno ad essa, meritano di essere ricordati l’adulterio, il concubinato, il matrimonio riparatore e la rilevanza penale della causa d’onore.
Il reato di adulterio (art. 559 c.p.) aveva una specificità: era previsto solo per la moglie (e non anche per il marito) e prevedeva la reclusione fino a due anni ed era punibile anche nel caso di una sola “scappatella”. L’infedeltà coniugale del marito, invece, sebbene sanzionata con la stessa pena, era punibile solo in caso di concubinato (cioè l’infedeltà continuata con un’altra donna) e solo nel caso in cui il marito avesse tenuto la “concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove” (art. 560 c.p.). L’evidente asimmetria tra le due norme risiedeva nel fatto che per la donna era punita l’infedeltà anche di una sola volta, mentre per il marito la punizione era condizionata non solo dalla stabilità della relazione extraconiugale ma anche dalla sua notorietà che doveva scaturire, come diceva il codice, dal tenere in casa l’amante insieme alla moglie o notoriamente altrove.
Questa disparità di trattamento giuridico, sebbene largamente accettato dalla società e in larga misura anche dalle istituzioni dell’epoca, fu formalmente sollevata davanti alla Corte Costituzionale dal Tribunale di Lagonegro (24.11.1960) e dal Pretore di Ancona (10.05.1961), perché ritenuta in contrasto col principio della parità dei sessi di fronte alla legge e col principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, rispettivamente previsti dagli articoli 3 e 29 della Costituzione.
Ovviamente nel clima culturale dell’epoca il concetto di autonomia femminile era difficile se non impossibile da elaborare e tollerare e il controllo patriarcale sulla sessualità femminile, la cui autonomia rischiava di mettere in pericolo il dominio da sempre esercitato dai maschi, giocava ancora un ruolo fondamentale per la decisione che i giudici costituzionali furono chiamati a prendere.
Infatti la Corte, con sentenza n. 64 del 23 novembre 1961, si pronunciò per l’infondatezza della questione facendo proprie, nella motivazione, le affermazioni dall’Avvocatura dello Stato che aveva sostenuto l’impostazione tradizionale secondo cui, “oggetto della tutela, nella norma dell’art. 599 c.p., non è soltanto il diritto del marito alla fedeltà della moglie, bensì il preminente interesse dell’unità della famiglia, che dalla condotta infedele della moglie è leso e posto in pericolo in misura che non trova riscontro nelle conseguenze di una isolata infedeltà del marito”. Tuttavia, sette anni dopo, la Corte smentì se stessa con due successive sentenze, la n.126 del 19 dicembre 1968 e la n.147 del 3 dicembre 1969 che dichiaravano incostituzionali gli artt. 559 e 560 del codice penale che prevedevano rispettivamente il reato di adulterio e di concubinato. Con la prima sentenza la Corte asseriva che la discriminazione tra i due coniugi non garantiva affatto l’unità della famiglia, ma era solo un privilegio del marito in violazione del principio di parità (art. 29 Cost.). Con la seconda sentenza la Corte osservava che i reati di adulterio e concubinato recavano “l’impronta di un’epoca nella quale la donna non godeva della stessa posizione sociale dell’uomo e vedeva riflessa la sua situazione di netta inferiorità nella disciplina dei diritti e dei doveri coniugali”.
(Divorzio all’italiana, regia di Pietro Germi, 1961)
Il matrimonio riparatore, previsto dall’art. 544 del codice penale, era un istituto giuridico che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale (e di altre fattispecie affini) per l’autore del reato che avesse contratto matrimonio con la vittima e se vi era stata condanna, ne cessavano l’esecuzione e gli effetti; il beneficio si estendeva anche a coloro che erano concorsi nel reato medesimo. La ratio di questa anacronistica norma consisteva nella necessità di “restituire l’onore” alla donna abusata sessualmente (e di riflesso ai suoi famigliari), riconducibile tutto nella reputazione di illibatezza e di assoluta irreprensibilità dei costumi. La legislazione dell’epoca concepiva la donna non come soggetto portatrice di diritti in quanto tale, ma in quanto portatrice di quei valori sociali e famigliari quali la moralità pubblica (la coscienza etica di un popolo) e il buon costume (il suo aspetto esteriore). In pratica la legge sembrava privilegiare l’esteriorità piuttosto che la vittima di stupro, era come se la sfera della sessualità appartenesse al generico patrimonio collettivo della moralità e del buon costume e la vittima restava semplicemente una donna privata dell’onore che solo il matrimonio (col suo stupratore) poteva restituirle. In pratica il matrimonio, che in questi casi suonava come una crudele beffa imposta alla donna violentata, aveva una sorta di funzione catarchica, comunque necessaria per la “riabilitazione” sociale della vittima.
Tuttavia non mancarono donne violentate che seppero dire di “no”, ribellandosi a questa secolare e barbara tradizione, come Franca Viola, la diciassettenne originaria di Alcamo (TP) che nel 1965 si era opposta alla celebrazione del matrimonio “riparatore” col suo rapitore e stupratore Filippo Melodia, facendo condannare quest’ultimo, con la sua denuncia, a ben undici anni di reclusione, mentre a sette dei dodici complici che lo avevano aiutato a rapire la ragazza fu comminata la pena di anni quattro e mesi otto di reclusione (sentenza del Tribunale di Trapani del 17.12.1966).
Quella rinuncia a sposare il suo stupratore e, peggio, la denuncia contro di lui, cosa inusuale per la Sicilia dell’epoca, poteva costare cara a Franca Viola, lasciarle impresso un “marchio” che avrebbe segnato per sempre la sua giovane vita, decidere il suo destino, decretarne la morte sociale per il rischio di dover essere accompagnata per sempre dal giudizio e dalla condanna di tutti. Ma il coraggioso gesto di rifiuto di Franca Viola, ben presto imitato da altre giovani (come Mattea Ceravolo da Salemi nel 1966 che fece arrestare il suo ex fidanzato Andrea Virtuoso che l’aveva rapita e violentata), per il clamore che suscitò non solo nella Sicilia dell’epoca ma soprattutto su scala nazionale, la rese suo malgrado un’icona del femminismo, al punto da rappresentare una delle persone più emblematiche dell’emancipazione delle donne italiane. La vicenda di Franca Viola rappresentò il punto di partenza del progressivo sgretolamento di alcuni tabù e modelli di comportamento profondamenti radicati nel meridione d’Italia, anche grazie all’ampio spazio che dedicarono alla vicenda non solo i quotidiani locali ma anche quelli a tiratura nazionale, oltre all’attenzione di numerose personalità della politica e del mondo dello spettacolo: nel 1970 il regista Damiano Damiani si ispirerà alla vicenda di Franca Viola girando il film La moglie più bella, interpretato da una giovanissima Ornella Muti. Ed è da questa vicenda che prenderanno le mosse le iniziative parlamentari che porteranno nel 1981 all’abrogazione definitiva delle norme che contemplavano il “matrimonio riparatore” e la “rilevanza penale della causa d’onore” prevista anche per gravi reati come l’omicidio.
Il reato di omicidio per causa d’onore previsto dall’art. 587 del codice penale, straordinario strumento di vendetta per l’offesa dell’onore maschile e protagonista di numerosi omicidi di donne consumati non solo in Sicilia, era un’autonoma fattispecie delittuosa in cui la causa d’onore non era una circostanza attenuante ma uno degli elementi costitutivi.
I primi due commi di detto articolo così recitavano: Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.
La prima cosa che salta in evidenza leggendo questa norma è l’entità della pena prevista (da 3 a 7 anni di reclusione), sensibilmente ridotta rispetto ai casi di omicidio commessi per cause diverse dall’onore che prevedevano come pena massima l’ergastolo.
Le condizioni per invocare l’applicazione di questa particolare e peculiare norma erano, dunque, la scoperta in flagranza, o l’acquisizione di elementi di prova inequivocabili, di un rapporto carnale illegittimo, la presa di coscienza di aver subito un’offesa alla propria dignità personale e al proprio senso dell’onore ed il conseguente ed immeditato “stato d’ira”.
L’esecuzione dell’omicidio per causa d’onore, generalmente, avveniva in pieno giorno e alla presenza di testimoni e, contrariamente a quanto accadeva dopo la commissione di qualsiasi altro tipo di delitto, il colpevole non si sottraeva all’arresto ma andava a costituirsi spontaneamente alle forze dell’ordine confessando la sua responsabilità. La pubblicizzazione dell’evento delittuoso e dell’indubbia natura del movente altro non era che la risposta sociale che bisognava dare per la grave offesa al sentimento della dignità personale dello stesso colpevole.
In pratica la violenza veniva riciclata per rispettabilità sociale, perché di fatto la causa d’onore invocata dall’omicida che ricorreva all’applicazione dell’art. 587 delineava un senso dell’onore di tipo prevalentemente “sessuale”, frutto della cultura prettamente patriarcale del tempo, che presupponeva la soggezione della donna all’uomo e attribuiva la proprietà del suo corpo ai componenti maschi della famiglia.
Come per il matrimonio riparatore il cui iter legislativo per la sua abrogazione aveva preso le mosse dal caso di Franca Viola, anche per l’abrogazione della “rilevanza penale della causa d’onore” la scintilla che innescò la discussione parlamentare circa la sua abrogazione scaturì da un clamoroso fatto giudiziario svoltosi a Catania: il processo a Gaetano Furnari, un maestro elementare di Piazza Armerina che il 20 ottobre 1964 in un’aula dell’Istituto Universitario di Magistero della città etnea, aveva ucciso a colpi di pistola il professore Francesco Speranza con cui la figlia Maritena (Maria Catena all’anagrafe) aveva da tempo una relazione. Processato per omicidio volontario (che in caso di condanna prevedeva la pena dell’ergastolo), il 23 dicembre 1965 Furnari era stato riconosciuto colpevole di omicidio per causa d’onore ed era stato condannato, tra i calorosi applausi del pubblico presente alla lettura della sentenza, a scontare solo due anni, undici mesi e dieci giorni di reclusione. L’estrema mitezza della pena diede luogo all’accesa disputa sull’opportunità di riformare il disposto dell’art. 587 del codice penale.
Il matrimonio riparatore e la rilevanza penale della causa d’onore, due relitti giuridici vergognosi e grotteschi nello stesso tempo, dopo un lungo e travagliato percorso parlamentare durato ben sedici anni, verranno definitivamente espunti dal nostro ordinamento giuridico con l’approvazione della legge n. 442 del 5 agosto 1981. Paradossalmente la donna sin dal dicembre 1970 poteva divorziare, grazie alla legge n. 898 del 1° dicembre 1970, ma rischiava la vita se tradiva il marito.
Tuttavia, a tutt’oggi, a distanza di tanti anni dall’abrogazione di questi obbrobri giuridici, nonostante l’introduzione, nel febbraio 2009, del reato di stalking e, nel 2013, della legge contro il femminicidio, sono ancora tanti, troppi, i fidanzati, i mariti e gli amanti gelosi o respinti che pensano di poter legittimamente esercitare varie forme di abuso e di violenza, arrogandosi un inesistente diritto di “possesso” e di “controllo” sulle donne che sostengono di amare, talvolta meritevoli di morte che a quel possesso e controllo hanno tentato di sottrarsi.
*Marcello Ribbera
già Commissario della Polizia di Stato